Un racconto a proposito dei vecchi meccanici.
La Vita è come un carosello. Il cavallino che abbiamo di fronte inizia a girare, magari ad andare su e giù e dopo 360°, torna da dove era partito. Stavolta c’è una Pallas al posto del cavallino: con le sue morbide sospensioni va su e giù come la vita, con i suoi alti e i suoi bassi, gira, gira fin che la giostra non si arresta. E li capisci che forse, o è ora di scendere, o di ricominciare. L’11 Novembre di quasi 40 anni fa, quel carosello iniziò a girare per due fratelli che aprirono un’officina autorizzata Citroen. Occorreva il capannone. Debiti. Occorrevano le attrezzature. Debiti. Bisognava frequentare dei corsi apposta per queste strane vetture. Altri debiti. Eran gli unici nella zona che conoscessero queste nuove Citroen. In quella fredda e nebbiosa mattina di novembre, alle sette e trenta piovigginava, tirava un po’ di vento. Cadde una foglia. Si aprì l’enorme portone dell’officina. Adamo da una sponda, Angelo dall’altra. Bisognava ancora farsi dei clienti ma la fortuna volle che dalla foschia a guardia del portone e delle strade, si intravedessero due fari gialli, farsi strada in quella muraglia bianca. Ad inaugurare l’attività fu una DS 19 grigia, come il cielo là fuori, che entrò come dai gesti dei nostri due pionieri. Loro erano pronti. Così partì l’attività. “-Ma come siete stati bravi! Non c’era riuscito nessun altro -li ringraziò il primo cliente- vi farò una buona pubblicità!” Entro la fine della mattinata arrivarono altre tre automobili, tutte e tre di marche diverse, ma i due fratelli, non avevano paura. Chi sa riparare bene una DS, sa riparare di tutto! Ovviamente, quattro clienti non bastano a ripagare quella valanga di debiti. Bisognava investire in pubblicità. I due fratelli, con una 112 debitamente preparata, decisero di partecipare alle gare di rally in cui bisognava riuscire a fare più testacoda. Il trucco stava nel fissare delle sferette d’acciaio ai freni anteriori. Ne usciron vincitori con una grossa coppa. Non era tanto quella, la vera vittoria fu la pubblicità. Iniziarono ad arrivare in officina auto a rotta di collo. Un ponte non bastava più. Ne occorse un altro e poi col tempo ne occorsero due e poi tre. Alla fine v’eran quattro ponti alzati e la fossa per i camion. Alla mattina alle sette e trenta si apriva il portone e si ricominciava. Bisognava correre, senza sentire il fiatone, c’eran dei debiti da pagare! I due fratelli lavoravano dalla mattina alla sera. Alle ore otto si chiudeva il portone, ma la giornata non finiva li. Dopo cena si ritrovavano in officina perché c’erano almeno quattro auto sopra il ponte da riparare per il giorno seguente, sennò non avrebbero potuto ospitare altri clienti. E così, dalle nove si lavorava fino a mezzanotte, all’una, se c’era una testa da rifare si tirava avanti anche fino alle due. Sono sacrifici che pagano, ma che si pagano anche. Pagano soldi, necessari a quei due fratelli più che mai, ma si pagano con una merce che una volta ceduta, non si ricompra più a nessun prezzo: la salute. I clienti aumentavano, ma erano solo in due contro tutti. Così arrivò Giovanni, un buon ragazzo con la stessa voglia di lavorare come di fumare. Se c’era da fare una frizione, faceva fuori un pacchetto intero di sigarette. Altro che bollino blu! Pian piano, col tempo, il sudore della fronte, riuscirono a pagare il capannone. Era necessario un nuovo investimento: una Jeep per trainare chi rimaneva in panne lungo la strada. Arrivò una vecchia Lada Niva 1600 col motore del 131 fiat, che ben presto fu messa a GPL. Una nuova branca che poteva aiutare ad estinguere i debiti: il soccorso stradale. Ne videro e sentirono di tutti i colori. Quell’officina era un porto di mare, un decaduto Cafè settecentesco, un rivalutato Filòs. Qui alla sera, si incontravano filosofi della strada e dell’ufficio, della campagna e della città, chi studiava i libri, chi la polenta. Qui confluivano gli amanti della buona tavola e del buon vino, delle belle donne e i devoti del bar sport. Così, tra un giro di chiave inglese ed uno di politica, tra un colpo di martello e uno di calciomercato, si passava più volentieri la serata facendo la vera filosofia, quella che non si trova sui libri, quella che non si esprime con dovizia retorica, ma la più concreta: quella della strada. Poi, col tempo, finirono di pagare il debito. Forse i debiti erano estinti, ma ora nel frattempo, c’era da mantenere una famiglia, quindi bisognava lavorare ancora sodo. Non conoscevano orari, non sapevano dir di no a nessuno, anche se certe volte, da quel capannone, volavano fuori tutti i santi del cielo, comprese le chiavi da tredici e quattordici che si spaccavano. I soldi arrivarono, tanto da non preoccuparsi più come in passato per il futuro, ma continuavano a lavorare giorno e notte, ma non per il vile denaro. Bensì per il fatto che, per loro, mettere in strada un cliente era una missione che andava al di là del semplice lavoro. La loro occupazione era divenuta un impegno morale da portare a termine, era una promessa, un fatto di coscienza. Da loro dipendeva se una persona poteva permettersi di andare a trascorrere un week end al mare, se un operaio poteva andare al lavoro il giorno dopo, ad un ragazzo se poteva recarsi in tempo per l’appuntamento con la sua ragazza. Portavano a termine tutto, con la loro proverbiale calma che nei casi più gravi, comportava una sosta del veicolo anche più settimane, ma l’importante era eseguire i lavori con perizia. I due fratelli però, in nome della loro devozione alla cura delle vetture, trascuravano fin troppo la loro salute. Ma tanto c’era Giovanni che teneva botta e che nel frattempo aveva smesso di fumare perché, se l’era già vista brutta. Io capitai là tardi col mio DS, quando ormai stava finendo un’epoca. Ma non era ancora conclusa. Giovanni si era irrimediabilmente ammalato, Angelo ormai era in pensione, anche se aiutava ancora il fratello, sebbene anche la sua salute gli aveva imposto il suo ALT. Adamo invece non voleva cedere. Era pieno di dolori, di acciacchi, aveva alle spalle una delicata operazione al cuore, una all’ernia che ogni tanto gli saltava ancora fuori ed egli stesso si andava lamentando per la sua situazione. Diceva spesso: “Ah, sono vecchio”. Ma noi rispondevamo che i vecchi, poveretti, son quelli che non sanno più nulla, le persone che dopo una dignitosa esistenza hanno una mente che non li serve più, non era certo il caso di Adamo. Gli dicevamo spesso: “Guarda che le macchine si aggiustano, le persone no. Vacci piano”. “-Eh, lo so, lo so” farfugliava mentre alzando il ponte, si puliva il viso con la manica della tuta. Erano rimasti ancora in due ad affrontare tutti i clienti sempre più esigenti, pretenziosi e capricciosi ed impazienti. Non tutti per fortuna, c’è chi ha atteso sette mesi per la riparazione del proprio veicolo visto che, per mancanza di personale, i tempi si erano considerevolmente dilatati. Chi l’avrebbe mai detto: una volta li sarebbero andati a cercare, ora non sapevano come sbarazzarsene. L’officina era piena, il piazzale era pericolosissimo, qualcuno ti poteva sbocciare la macchina da tante che ce n’erano. Ma i clienti non erano l'unico problema. Troppa elettronica. “-Quando iniziano ad accendersi delle spie non è roba per me” commentava Angelo mentre smerigliava la testa di un XM. Adamo invece aveva altro che gli dava da fare. 4 punti in meno sulla patente, perché aveva prestato l’auto ad un amico che aveva superato l’autovelox di Viadana ai 100 all’ora. Lo avevano costretto a pagare così tante multe che Luigi, un vero amico, lo faceva arrabbiare dicendogli: “Ho visto che sul marciapiede di Viadana c’è inciso il tuo nome. L’hanno fatto coi tuoi soldi” “-Lùigi, va a dar via al c…”- gli urlava ridendo Adamo, ormai rassegnato a questa nuova dittatura. Un giorno per fortuna, oltre al prode Luigi, arrivarono ad aiutare i due fratelli anche un valoroso elettrauto, occupato a curare alternatori, motorini d’avviamento ed elettronica ed Ulisse, un competente carburatorista, ma Angelo ed Adamo non ce la facevan più. Cercarono di dimezzare i clienti perché non si poteva andare avanti. Una sera finalmente, iniziarono a lavorare attorno alla mia DS. Tra i vari lavori, vi era da sostituire il flessibile marmitta che andava scaldato per essere estratto. Alzarono il ponte ed iniziarono il lavoro. Avrebbero meritato una fotografia: mentre Adamo con la fiamma ossidrica blu scaldava il metallo che diventava rosso, Angelo con la cagna, cercava di svitare il tubo arrugginito. La luce della fiamma che illuminava i loro volti contratti dalla poca salute e dalla fatica, meritava di essere immortalata con un’immagine degna da archeologia industriale. Competenza e sprezzo del pericolo nei loro sguardi, proiettati in un lavoro che doveva essere finito a puntino. Era andato a casa anche Luigi. Poi stremati, si sedettero uno accanto all’altro, mentre ammiravano l’armadio sulla cui sommità troneggiava una cinquantina di coppe e di trofei di rally, vicino ad un attestato di qualità inviatogli dalla sede centrale della Citroen, poco distante da un articolo di giornale che elogiava il loro operato e accanto, la foto in bianco e nero che li ritraeva davanti al portone in quell’undici Novembre quando aprirono l’officina. Era rimasta solo la mia DS. Angelo chiese al fratello: “Adamo, non tiriamo dentro la Jeep?” Adamo rispose: “Perché? Non l’abbiamo mai tirata dentro” ed Angelo rispose con un’osservazione, che solo un acuto filosofo del simposio avrebbe potuto sfornare dalla propria mente: “Già, e pensa cla sa dat da mangià!” (e pensa che ci ha dato da mangiare). Adamo Sorrise. Poi fissando la mia macchina, gli scappò un’altra osservazione, altrettanto acuta come quella precedente: “-Pensa –fece Adamo- abbiamo iniziato con questa macchina, ed ora finiamo proprio con questa”. Ad Angelo scappo’ un leggero sorriso mentre giochicchiava con un bullone ormai arrugginito. Arrivai io quella sera a prendere la macchina. Pagai e ringraziai tanto del lavoro, delle cose insegnatemi e dei bei momenti passati assieme. Poi girai la macchina e mi videro sparire nella nebbia mentre io li vidi, uno da una sponda, uno da un’altra, chiudere l’enorme portone. Il giorno seguente era proprio l’undici Novembre di quasi quarant’anni anni dopo. In quella fredda e nebbiosa mattina di novembre, alle sette e trenta piovigginava, tirava un po’ di vento. Cadde una foglia. Ma il portone dei due fratelli, non lo si aprì più.
No, sarebbe un finale troppo ingrato.
Dov’era caduta e morta quella foglia, a seguito di pochi mesi comparve un piccolo bocciolo di un fiorellino. Dopo una convalescenza ed un riposo simile a una sorta di timido letargo, in una calda mattina di primavera fece capolino dal portone Giovanni, vestito col suo bel cappotto di renna e con un sorriso da un orecchio all’altro, facendo andar su e giù le sopracciglia: “Ben, alura a cuminciom?” (bè, allora cominciamo?). Adamo rispose incredulo con un sorriso altrettanto ampio e gli riuscì a dire solo: “Oh, at ze che!” quando Angelo rispose: “Oh, visto che sei così contento, monta il motore dell’EVASION di mia nipote clè tri mes cla speta, andom, ve che cum me”. Adamo se ne andò gongolando nell’ufficio, un po’ impacciato per l’operazione subita poche settimane prima e dopo due telefonate, planarono in officina l’Elettrauto, che entrò borbottando ma si mise subito a parlare da solo e a ridere con un alternatore da cabaret e Ulisse il carburatorista, reduce da una delle sue interminabili odissee con le “scentrate”, le sue donne. Il traffico sulla statale si intensificava, il sole stava tornando a regnare dopo un lungo esilio durato anche per lui. Tornò anche il sottoscritto con la sua DS bisognosa di un lifting, segno che la giostra, con un po’ d’olio ricominciava a girare e non ancora contenti, entrò Luigi sbiciclettando per il capannone, mostrando impunemente i suoi due nuovi seni femminili finti, mentre citando il grande Demis Russos, canticchiava e ballava “We shall dance”. Allora apriti o cielo: si levò un coro di risate da far crepare i fianchi. In quel rifiorito porto di mare, non mancava neanche più una “Susan dei mari”, immortalata sui classici calendari da officina, quella “Susan dei mari” che: “sogna di mari e antichi velieri, ma poi non parte mai”, a completare la compilation di quegli anni 70 di cui tutti i nostri personaggi erano un po’ figli, un po’ protagonisti. La vita è un carosello che gira e se prima o poi si ferma, è solo per ridarci fiato e ripartire rinfrancati per il prossimo giro, per fare un attimo un tagliando, girare le gomme e ripartire!