Musa...

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Offline IDcronio

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Musa...
« il: Settembre 08, 2009, 06:43:50 pm »
....sempre al centro dell'attenzione.

Bella storia :)



Keeping it brief – Pietro Polsinelli’s blog
Zeppelins
Posted in in italiano, litterature, short stories by Pietro Polsinelli on July 2, 2009
Questa è un breve racconto che mi è stato ispirato dal vedere l’opera di Loris Cecchini della foto, nell’esposizione di cui ho parlato precedentemente; osservandola ne emana una sorta di sfida per l’osservatore, c’è una storia interrotta che va resa esplicita, in uno dei numerosi modi possibili.  Sono felice di poter scrivere che il racconto è stato apprezzato… dall’artista stesso!





Opera di Loris Cecchini - Monologue Patterns (illegal), 2003 Collezione Giulio di Gropello Foto: Carlo Fei, Firenze
Il tratto di strada faceva da ponte tra i massi che arrivavano al mare.  Al centro della strada, la Citroën DS per traverso, e una botola aperta nell’asfalto.

Il commissario era arrivato solo. Accostò la moto prima del ponte, la nascose tra le rocce.  Tenne i guanti, circumnavigò la vettura, nella DS non c’erano chiavi. L’auto era in mezzo alla strada, la accostò a un lato del ponte spingendola in folle, sudando. Notte, si sentiva il mare ansimare.

Gli era arrivata la mattina l’informativa dai servizi, “dall’onorevole corrispondente”, anonimo. Era diventato commissario di polizia, ma era ancora registrato come agente passivo. Prima paracadutista, Algeria, ora polizia. Mai troppo convinto, mediocre professionista. Gli passavano solo informative secondarie o dubbie.

Doveva entrare, e chiudere la botola; spinse dentro la torcia armata di pistola. Una scala di ferro che scende, giù per qualche gradino, chiudi la botola là dietro, scendere fino a una piattaforma, aperta, con un basso parapetto. Era la parte superiore di una struttura abitabile appesa sotto il ponte.

Guardò il mare; poi si sporse dal parapetto per vedere sotto, le pareti delle tre stanze cilindriche lì appese sembravano in vetro, dall’interno un chiarore. Si accostò all’entrata di sotto, un profumo, nuovo. Bisogna scendere. Ancora scalini metallici, un respiro affannato per ogni passo, dentro il primo zeppelin. Un tavolo, con dei contenitori in vetro etichettati, delle boccette, dei porta pipette, il resto dello spazio occupato da piante verde lucido in vaso trasparente. Nessuno.

Vedeva in trasparenza opaca il contenuto del secondo e terzo cilindro abitabile, anche questi occupati da piante. Procedere nel secondo ambiente.

Qui, un corpo per terra. Lo scorse all’improvviso, dai capelli che spuntavano dietro una pianta, non se lo aspettava; si accucciò, sarebbe stato facile colpirlo da fuori, impugnò la pistola. Si rialzò, potevano già averlo colpito quante volte volevano; ormai, era tornato un dilettante. Questo non era un affare sciocco, era arrivato a lui per un errore di valutazione, un errore…

Girò intorno al corpo, che era un cadavere: gli avevano sparato, poco sangue intorno. Era girato supino, le tasche già svuotate da altri; un braccio tra due vasi. Si fermò: era lì per i servizi, non come poliziotto; quindi cosa fosse successo, non era importante, e neanche chi esattamente lo avesse ucciso. Quel che importava era trovare quel che stavano cercando.

Avanti e indietro tra le piante, non capendo; fuori solo il vento. La segnalazione dell’onorevole corrispondente non indicava cosa si dovesse cercare.

Dove era il tesoro? Ci doveva essere il tesoro. Il servizio di Josef non uccideva in Francia, gli doveva essere sfuggito qualcosa, e aveva chiuso la partita con mezzi estremi. Una partita giocata così male, doveva avere un tesoro.

Qual era il senso. Passava tra le piante; forse il terreno? I vasi delle piante, in una plastica sottile, trasparente. Morbida come una gomma. Forse quella? Mah.

Su uno dei tavoli instrumentati c’era un giornale, un Humanitè di mesi prima. La regola era lasciare l’ambiente sempre come se non si fosse passati; stese il giornale aperto per terra, prese la base della prima pianta, la appoggiò al centro, la estrasse delicatamente dal vaso.  Sgranò la terra, isolando le radici. In questa, niente; doveva estrarle tutte.

Manipolando la pianta per invasarla, le foglie; era una pianta con radici, fusto, normale, viva, non ne conosceva il nome. Eppure le foglie avevano una consistenza particolare. Lucide e spesse come quelle di una pianta grassa, ma cedevoli nel tessuto; provò a inciderne la superficie con le unghie, non ci riusciva, non si lacerava. Provò a strappare il lato della foglia, ci riuscì; ora il profumo che già occupava il cilindro si sentiva più intenso dalla foglia. Intenso. Un po’ stordito, le piante e il cadavere, in affanno.

Cercò un’uscita verso il mare, da sotto, non voleva riuscire sulla strada, per non riaprire la botola. Il terzo ambiente aveva un’apertura inferiore, senza scale apparenti, su diversi metri di vuoto fino agli scogli sottostanti. La sbloccò, c’era una scala a corda legata sotto, slacciò, scese fino agli scogli. Inciampò in una maschera antigas. La lasciò lì. Camminò al mare, sedendosi su uno scoglio in riva alle acque agitate. Sonno improvviso, l’aria fredda del mare non lo risvegliava, sentiva la circonferenza della testa morbida, pronta al riposo. Si appoggiò sul fianco, dormire.

Sogno: faticando, strisciando, era tornato in uno degli zeppelin, che era però fatto interamente di un materiale gommoso/plastico, bianco, come un lattice. Le piante erano assorbite dalle pareti, avvolte nel lattice, sporgevano le punte delle foglie, poi nulla. Anche il suo corpo iniziò a essere assorbito dalla parete, cominciava ad affondare; i piedi s’immergevano progressivamente, le gambe, il torso, rimaneva la testa; lì iniziò a dibattersi, non respirava. Distendendosi, riuscì a ritornare alla superficie, ma anche così, più lentamente, affondava … .

Si risvegliò volendolo, mugolando, scosso dall’incubo. Si levò a sedere, a gambe incrociate, rallentando l’affanno. Si voltò, il chiarore degli zeppelin era ancora lì. Sentiva freddo, difficoltà ad alzarsi. Non era normale; si accucciò, le piante. Le piante, dovevano essere quelle piante, la consistenza, il profumo. La maschera antigas. Doveva essere stordito prima. Tornò sotto la botola, respiro completo, più volte. Risalì, entrò nel terzo ambiente.

Le guardava, le toccava, rapido: le piante erano viventi, viventi di una vita intermedia, tra il vegetale e la plastica.  Era quello il tesoro, gli altri non avevano capito. Una pelle diversa; quella umana è così inefficace, tanto che il vestito che la ricopre è una parte importante dell’identità, del tenersi in vita. Un uomo denudato perde gran parte della sua forza, è pronto per perdersi; infine, riesce solo a piangere. Immagini dell’Algeria, che aveva sfocato nel tempo.

Improvviso, il torpore lo riprese, si trovò a quattro zampe, tornò al terzo ambiente, cadendo, trascinandosi per terra, sporse il busto fuori dall’uscita inferiore, respirava, meglio. Si calò di nuovo per la scala di corda, e poi facendo un lungo giro esterno, aggrappato alle rocce, male alle mani, alle gambe, tornò sul ponte, dove era arrivato. Spinse la DS accanto alla botola, che riaprì. Dal motore staccò il tubo della benzina, iniziò a farla colare. Poi una striscia di benzina, allontanandosi di qualche metro. Accese, il fuoco iniziò piano, poi subito fortissimo, le varie plastiche, degli ambienti e dei semi vegetali, bruciavano rapide, un fumo letale. Riprese la moto, partì nel bagliore, ridendo tra se, silenzioso.